Qualche riflessione sul design dei nostri tempi

Vanni Pasca

È molto interessante il programma che Otto luogo dell’arte, la galleria di Olivia Toscani Rucellai, sta sviluppando a Firenze con la direzione artistica di Mauro Lovi. È iniziato con la mostra Radura,con opere di Lovi è proseguito con una mostra dedicata a Megalopoli, la galleria-atelier che Agneta Holst curava a Milano alla fine degli anni ’70 ( e Olivia è la figlia di Agneta).  Propone ora una nuova iniziativa, Oh! Nirica (con titolo che parla da sé, con la sua rottura dada di un riferimento proprio della tradizione surrealista), in cui quaranta artisti e designer sono chiamati a presentare “oggetti” realizzati con artigiani. Tra questi lo stesso Lovi che presenta il grande letto Abbarca (“en bateau” ?).
Incontrai Lovi per la prima volta alla metà degli anni ’80 del secolo scorso quando per una mostra (“La mossa del cavallo”) curata da Isa Vercelloni e da me, selezionammo una sua sedia, piccola architettura  in cui le gambe si raccordano alla seduta con archi a tutto sesto e lo schienale si conclude con un ornamento a voluta: intersezione di architettura e arredo, si direbbe, ma sulla seduta fa  bella mostra di sé una piccola piramide di legno che la “defunzionalizza”, rendendo improbo il servirsene,  spostandola ad  “altro da sé”, o almeno ad altro dalla sua immediata riconoscibilità come sedia.  Lo racconto qui perché era un oggetto significativo di quella fase.   Vorrei sottolineare che la progressione delle tre mostre (e quest’ultima andrà a Berlino) segna un percorso verso una ridefinizione della ricerca esplosa in Italia tra anni ’60 e ’70 (con riprese del futurismo e della pop art) con esperienze come quelle a Firenze di Archizoom e Superstudio, poi a Milano di  Alchimia e Memphis, ma non solo in Italia: basti ricordare per la prima fase Hans Hollein, Walter Pichler  o gli inglesi Smithson, Indipendent Group  e Archigram;  e dagli anni ’80, la diffusione di gruppi in tutta Europa come One-off di Ron Arad a Londra e Antologie Quartett con Borek Sipek in Germania.  Si sviluppò allora, in modi diversi, una ricerca sugli oggetti in senso ambientale, relazionale, psicologico, con progressiva messa a punto di una teoria di design romantico basato su un nuovo rapporto tra design, arte e autoproduzione, in uno stile ludico ed eclettico, nel piacere del gioco colorato e della presenza magico-rituale degli oggetti,  verso una nuova “opera d’arte totale” in cui vita e arte si intrecciano. Ma questi sono temi già trattati negli scritti per i cataloghi delle precedenti mostre di Otto firmati da Isa Vercelloni, Philippe Daverio, Beppe Finessi e altri. Scritti che, con altri futuri, potrebbero costituire una raccolta di testi utile per aprire un dibattito promosso da un’iniziativa che, scrive Olivia Toscani Rucellai, “è nata ispirandosi a Megalopoli e vuole verificare quel modo di lavorare riadattandolo ai nostri tempi”.
Come ha mostrato Arthur C. Danto (After the end of art, 1997), nella seconda metà del secolo XX  il predominio dell’arte astratta, che sembrava avesse oscurato le altre direttrici di ricerca,  è venuto meno e sono riemerse le altre tendenze come il surrealismo, e in generale è riapparsa la figurazione. Questo è avvenuto anche per il design. In una mostra da me curata sul design italiano a Brasilia nel 2009, nel nuovo museo progettato da Niemeyer , ho aperto il percorso con due oggetti, apparsi tra il 1977 e il 1979: Atollo, una lampada di Vico Magistretti, dal rigoroso razionalismo geometrico; La poltrona di Proust, di Alessandro Mendini, dalle forme esuberanti spruzzate di colore à la Seurat.  Sono fortemente dissonanti: uno appartiene alla scuola  razionalista,  l’altro sviluppa il radical design e apre alla postmodernità. Occorre una precisazione.  Quando si parla del design radical, poi postmodern, si tende a definirlo come un design che ha riaperto i rapporti con l’arte,  ma ciò non è esatto. Il design ha sempre avuto rapporti con l’arte anche quando, con i designer produttivisti  russi degli anni ’20 del Novecento, giungeva a negarlo. Nel secolo scorso, in gran parte del design si sono viste due tendenze: una che poggiava la sua ricerca linguistica sull’astrattismo geometrico del De Stijl, poi mutuato dal Bauhaus; dall’altro lato, a partire principalmente dalla seconda metà degli anni ’50, la ripresa dei rapporti con la figuratività in tutte le sue espressioni, dal futurismo al surrealismo alla pop art.  Forse qui si apre la situazione che caratterizza questa terza fase della rivoluzione industriale, la fase della globalizzazione e dell’accelerazione della rivoluzione tecnologica. Col riemergere di tutte le tendenze che hanno caratterizzato il XX secolo, si estingue l’età delle tendenze, in definitiva delle avanguardie. La ricerca artistica si fa complessa e scarsamente decifrabile.  “Dove bisogna recarsi per intuire la direzione verso cui ci stiamo orientando, per capire le traiettorie delle poetiche contemporanee, per disegnare i contorni dei paesaggi estetici del futuro?”  La domanda  la pone  Vincenzo Trione che, interrogandosi sull’arte contemporanea (Corriere della Sera, 29/10/2010),  si dà anche la risposta: bisogna recarsi a Documenta Kassel. Cosa potrebbe rispondere invece un critico di design? Bisogna andare al Salone del mobile di Milano, a Miami e a Basilea, a Berlino, a Shangai o dove altro? In realtà per il design, siamo di fronte a un dato nuovo, costituito dal fatto che oggi emerge una ricerca sugli oggetti ricca di intenzioni artistiche ma svincolata da quei riferimenti obbligati alle poetiche delle avanguardie, astratte o figurative, che hanno caratterizzato gran parte del XX secolo. Le ricerche sono svincolate da precisi prototipi, come se fosse finita l’età dei linguaggi, quei linguaggi che si sono identificati nei tanti “ismi” propri delle avanguardie del ‘900.  Nell’epoca della sempre più generale pervasività dell’informazione mediatizzata, il problema dell’arte e del rapporto arte-design sembra porsi in modo nuovo.
Ma continuiamo sulla base di quell’indicazione della Toscani Rucellai che pone il problema  dei “nostri tempi”.  Nella nostra fase, ancora in parte in via di definizione, una serie di processi rivelano un ampio modificarsi del ruolo e dell’importanza del design. Prima di tutto, la sua estensione geografica. Fino a qualche anno fa, si ragionava sulla presenza del design solo in pochi paesi industrializzati: l’Italia, la Germania, i paesi scandinavi, gli USA, il Giappone e poco altro. Oggi si investe sul design in gran parte dei paesi del mondo. Cresce così il numero dei designer, dei docenti e degli studenti di design:  anche in Italia dove, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, sono nate numerose scuole universitarie di design che si sono aggiunte alle scuole pubbliche non universitarie e alle private. Si passa quindi da una professione di élite a una professione ampiamente diffusa sui territori.  Certo tutto questo avviene perché  il design è considerato un plus non solo per le aziende ma per i sistemi-paese,  nell’acuirsi della competitività internazionale indotta dalla globalizzazione; ma la forte crescita del numero degli studenti e dei  giovani designer  testimonia un crescente interesse verso il design come nuova modalità di espressione  della  creatività nella contemporaneità. Non è facile mettere a fuoco il panorama odierno del design  in questa difficile contemporaneità (ancor più difficile da decifrare in quanto segnata dalla crisi in atto). Ci si può consolare ricordando le parole di Trione succitate sulla complessità del panorama dell’arte;  ma seguendo il suo consiglio, e andando a  Documenta Kassel, qualche anno fa vi avremmo trovato una poltrona di Marc Newson,  prima apparsa a New York nella galleria di Larry Gagosian, rappresentativa di  uno dei fenomeni oggi in particolare sviluppo, quello denominato Design art. Negli anni passati è cresciuto l’interesse di antiquari e case d’asta, da Christie’s  a Sotheby’s,  per gli oggetti di design appartenenti alla prima metà del Novecento. In seguito, antiquari e mercanti d’arte hanno visto la possibilità di creare un nuovo mercato per gli oggetti degli anni Ottanta, quando dilagò la tendenza alla progettazione di pezzi singoli e di piccole serie d’autore. Novità ulteriore è che negli ultimi anni vengono commissionati oggetti d’arredo ad hoc, non solo dalle gallerie e non solo ai designer. Per fare qualche esempio, al Salone del mobile del 2006 a Milano, Dolce & Gabbana hanno presentato poltrone scultura commissionate a Ron Arad. Ma, di converso, la Carpenters Workshop Gallery, galleria d’arte di Londra, ha commissionato panche e tavoli di marmo non a un designer, ma a Marc Quinn, uno degli esponenti più interessanti della Young British art. Nel frattempo sono nate nuove gallerie e saloni, per esempio a Berlino, dedicati alla vendita di limited editions di design. E Gagosian ha aperto nella sua galleria di New York una mostra di pezzi unici direttamente commissionati a Marc Newson. Una sua dormeuse in alluminio, la Lockheed  lounge, è diventata un’icona anche per essere apparsa in un video di Madonna (Rain, 1998): in questo caso, come si vede, la circolarità mediatica diventa esemplare. Il discorso sul rapporto artisti – designer – oggetti d’arredo – mercato dell’arte è complesso e tutto da analizzare nel suo significato reale.
Ma c’è un secondo aspetto da mettere a fuoco. L’idea che ha caratterizzato le ideologie della prima metà del Novecento, secondo cui il nuovo avrebbe sostituito radicalmente il vecchio, è ormai scomparsa. È chiaro come la complessità contemporanea sia costituita certo dall’emergere del nuovo ma insieme dal permanere in nuove forme di ciò che appariva destinato a scomparire, come l’artigianato.  Nel 2010 perfino un’istituzione come l’ International Committee of Design History and Design Studies (ICDHS) ha organizzato un congresso sul tema: “Design and Craft: A History of Convergences and Divergences”. Ed è evidente come sulla nuova attenzione influisca lo sviluppo della New World History che, guardando al mondo, rilegge la storia evitando l’eurocentrismo.
Come si vede, il tema, o almeno uno dei principali temi,  è la nuova apertura di rapporti tra arte, design, artigianato. Apertura favorita non solo dalle nuove ricerche artistiche ma anche dalla presenza vasta di giovani designer che, agendo sui territori, trovano spesso negli artigiani, con la loro capacità  produttiva di alta qualità, il referente adeguato per sviluppare le loro ricerche. Ma c’è un tema che non va dimenticato, spesso sottolineato da Ugo La Pietra che con l’artigianato ha sempre lavorato: a partire dal  ‘700-‘800 ciò che si modifica è proprio la condizione dell’artigiano che conserva il proprio know how produttivo ma vede estinguersi la propria tradizione progettuale, quella che si tramandava storicamente nella bottega. Un nuovo rapporto tra artisti-designer e artigiani è probabilmente in grado di dare senso al “nuovo design” radicandolo sui territori e ridando a esso prospettiva.  In un pluralismo di ricerche che è appunto pluralismo, non relativismo, come scrive Richard Shusterman  (Estetica pragmatista, Palermo 2010).
In questo quadro, forse, va letta la riflessione di Martin Kemp, il grande storico d’arte dell’università di Oxford, che nel suo bel libro (Immagine e verità, Milano 1999) scrive: “Credo che l’arte, nelle sue manifestazioni consuete, farà parte di un contesto molto più ampio, nel quale essa diviene quasi una sottocategoria appartenente a una enorme varietà di manufatti creati per fornire stimoli visuali”. Sarà interessante seguire, continuando l’indagine sui nuovi fenomeni del design, l’evolversi di questo processo, di grande interesse e pieno di,interrogativi . È in questo senso che più sopra accennavo al compito che si sta di fatto assumendo la galleria Otto: diventare polo di ricerca sui nuovi processi, con le mostre, i testi, i dibattiti, la relazione che può progressivamente stabilire tra designer, studenti, scuole, e l’artigianato diffuso sul territorio. Relazione che è estremamente importante per evitare l’estinguersi (nella ripetitività ovvia) della grande tradizione artigianale italiana e toscana.

Vanni Pasca

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